Chi era costui? Un uomo, un musicista, un carpigiano.
Giuseppe Savani è nato a Carpi nel 1855, figlio di Tommaso, suonatore nell’orchestra (Iª Viola) e nella banda cittadina (Clarinetto e Oboe), nipote di Giuseppe e Domenico (Contrabbasso) e ancora, di Don Paolo (Maestro di Cappella in Duomo, organista, flautista, clarinettista, oltre che ottima voce di basso cantante). Ha frequentato la locale Scuola di Musica sotto la guida di quell’impareggiabile maestro ed organizzatore che è stato il concittadino Aniceto Govi, e con lui si è formato come suonatore di: violino, viola, mandolino, clarinetto, chitarra, fisarmonica, pianoforte, timpani, grancassa. Ha proseguito i suoi studi a Bologna, nel Conservatorio oggi dedicato a Giovanni Battista Martini, per una scelta che, oltre per la professionalità è stata, autenticamente, di vita ha deciso di svolgere tutto il proprio impegno nella città natale. In questo ha avuto, ancora, come maestro e guida il Govi che aveva fatto, negli anni ’70 dell’Ottocento la medesima scelta, malgrado non gli fossero mancate le occasioni di entrare in realtà più grandi (e proficue), e l’allievo-amico (anzi, decisamente supporter) intraprende una strada doppia, e tutta didattico-socializzante: in Teatro, Maestro dei cori delle Opere e delle Accademie, in Duomo Maestro di Cappella ed Organista.
È soprattutto nel campo religioso che Savani offre le migliori prove della propria produzione musicale, rivisitando testi della tradizione cattolica, anche popolare, con una vena che lo avvicina di parecchio a certe intuizioni verdiane e che preludono, in buona parte alla successiva scuola ceciliana.
Il suo oratorio “La Desolazione di Maria Santissima” composta su di un vecchio testo che parafrasa le Lamentazioni di Geremia, è diventato una specie di appuntamento obbligato per la Settimana Santa di Carpi dagli anni Ottanta dell’Ottocento, nonché il pretesto per la fondazione di diversi gruppi corali che da questo lavoro hanno mosso i primi passi. La sua visione sperimentale della musica, unita ad un forte convincimento di comunicazione, lo hanno portato a sostenere tante iniziative e raggruppamenti esecutivi locali, sia in funzione “seria” che “ludica”: eccolo, dunque, a fine ’800 riunire un discreto gruppo di cittadini borghesi per suonare l’Ocarina di terra, uno strumento della tradizione emiliano-romagnola che solo in un passato recente ha avuto l’onore della riscoperta filologica. Un gruppo un tantino stravagante, che si presentava nei pressi dei cimiteri, provava sui tetti delle case, possibilmente durante temporali e bufere, ma che riusciva anche ad ottenere riconoscimenti importanti e, soprattutto, sapeva divertire. Uno stravagante solo in apparenza, dunque, fortemente convinto della funzione socializzante della musica ed amante della pace, quella che proviene da una assoluta libertà di uno spirito fondamentalmente cristiano. Infine, quando il suo maestro lascia l’insegnamento pubblico, eccolo subentrargli per pochi anni nella Scuola di Musica, in cui non potrà ottenere quelle soddisfazioni che la composizione e la sua attività di Maestro di coro gli hanno dato per tanti anni: nel 1910, lui, uomo dell’ultimo ’800 passa la mano ad un altro allievo del Govi, il Maestro Mario Lugli, un altro mito carpigiano che ha seguito, in buona parte le sue stesse orme. L’ultimo decennio della sua vita si sviluppa all’interno della “sua” musica sacra, tra disgrazie familiari e momenti d’oblio pubblico, seguiti da improvvise rivalutazioni (tarde ed incomplete). Quando esce da questa vita, nel guizzo estremo del suo spirito ironico, lascia per testamento che, al momento della sua deposizione nel cimitero cittadino, gli ultimi suoi amici lancino nel cielo della città un razzo pirotecnico: non un lutto, dunque, ma una festa, un obbiettivo raggiunto, una sana, eterna risata.